[Fanfic] The Best Birthday Present Ever

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  1. Shadowolf19
     
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    Posto qui perchè l'idea è nata da un contesto comletamente diverso, ma s'è poi sviluppata intorno al compleanno di Rob, quindi mi sembra a tema. Comunque in caso cancellate/spostate senza problemi.

    Piccola premessa, è la prima volta che scrivo una fanfic (prima di iscrivermi al forum non sapevo manco cosa fossero), è la prima volta che faccio leggere qualcosa che ho scritto al di fuori del gruppetto di tre/quattro persone a cui di solito somministro i miei lavori, e in realtà non sapevo manco se postarla o meno, mentre la scrivevo mi divertivo ma appena finita ho cominciato a nutrire dei dubbi, in più un po' mi vergogno. Ma comunque sia, l'ha letta in anteprima Anna, mi ha detto che le è piaciuta e quindi ho deciso di pubblicarla.
    Ultimo avvertimento e poi la pianto: è slash, si tratta di Rob e Jude, non ho ancora ben capito il sistema rating quindi non saprei bene come classificarla, ma non credo contenga situazioni troppo delicate e/o grosse parolacce... In caso qualcuno la legga e ritenga sia meglio segnalare a dovere provvedo subito!

    Okay, penso di aver detto tutto, non mi resta che dirvi: "Enjoy!"


    THE BEST BIRTHDAY PRESENT EVER

    Fissa l’orologio davanti a sé. Le due di mattina. Cazzo. Si passa una mano sugli occhi, e poi via sulla fronte; comincia a scostare le coperte cercando di fare il più piano possibile, il più dolce possibile, per non svegliarla. Si agiterebbe soltanto, basta una minima cosa fuori posto a farla preoccupare per lui, per la sua felicità. E questo non lo vuole, perché lei non se lo merita. Non si merita nulla di tutto questo gran casino che lui, e lui soltanto, ha piantato su e che ora se lo sta lentamente divorando, distruggendolo come fosse una droga.
    Per fortuna ormai è talmente abituato a questi movimenti notturni che riesce a sgattaiolare via dal letto senza fare il benché minimo rumore, cosicché quando raggiunge la porta e la apre lei si gira dall’altro lato, completamente catturata da Morfeo. Si richiude silenziosamente la porta alle spalle, fa qualche passo e si affaccia alla camera di suo figlio, la cui porta è solo socchiusa; si infila nel piccolo spazio lasciato aperto e si appoggia al muro, incantato come sempre nel guardarlo dormire: è da quando è nato che viene rapito dal suo volto angelico, soprattutto quando lui non può restituirgli lo sguardo. Gli vuole troppo bene, e sa che se si facesse sorprendere in un momento come questo capirebbe in un momento che c’è qualcosa che non va. Non è più un bambino ormai, sta crescendo e per lui suo padre è un libro aperto, contrariamente a quel che avviene di solito. È soprattutto per lui che non sta facendo assolutamente niente, in nessuna direzione, riguardo questa situazione logorante, e se riesce ad accumulare un giorno dopo l’altro in soffitta è sempre grazie a lui, alle volte che gli chiede di fare due tiri a canestro, o di accompagnarlo da qualche parte, o semplicemente di fare una passeggiata in spiaggia; è lui che gli dà la forza di non prendere quella maledetta decisione, quella che manderebbe tutto, ma proprio tutto, a puttane. Sicuro, un’alternativa ce l’ha, un’alternativa c’è sempre, ma è una di quelle di cui faresti a meno, perché ti sembra – anzi, è – impossibile da superare.
    Rimane lì per un po’, sposta il suo sguardo dal letto alla scrivania, al MAC, alle penne sparse ovunque, al cappello autografato dei Lakers, allo stereo, ai dischi; allo skateboard appoggiato distrattamente contro l’armadio, alle varie magliette accatastate alla rinfusa sulla sedia, alla tv, alla consolle di cui non ricorda mai il nome quando glielo chiedono, al joystick lasciato sul comodino, alle foto che tiene appese senza un ordine preciso poco sopra la spalliera del letto; e poi di nuovo i suoi occhi si posano su di lui. Sospira a fondo ed esce.
    Scende le scale, sempre stando attentissimo a come si muove, lei ha il sonno leggerissimo, basta davvero un niente per svegliarla. Attraversa il soggiorno, va in cucina, tira fuori una bottiglia d’acqua dal frigo e ci si attacca come fosse birra. Le prime volte che il medico gli ha consigliato di farlo gli sembrava una stupidaggine, credeva di non farcela, credeva che finito quel periodo avrebbe smesso; invece no, gli è rimasta l’abitudine e questo è solo un bene. Anche in quel caso, è stata lei ad aiutarlo. Come sempre. Cazzo. Vuol riprovare a smettere di fumare, glielo ha chiesto anche lui, e a lui di solito non riesce a dire di no. Per un po’ c’era anche riuscito, ma da Gennaio ha lentamente ripreso, abbastanza lampante il perché.
    Rimette la bottiglia ormai mezza vuota a posto, va nel suo studio, recupera il cellulare che non usa quasi mai dal giubbotto di pelle, lo accende; sbaglia due volte il pin, alla terza lo azzecca. Attende qualche minuto perché ricevi il segnale, poi ancora e ancora con la speranza che arrivi un messaggio, o un avviso di chiamata. È un mese che va avanti con questa commedia notturna. Questo numero lo ha dato a pochissime persone, quelle che sa non lo disturberebbero per stronzate, si illude così che qualsiasi cosa venga segnalata sul display sia degna di esser letta. Passa un quarto d’ora e niente, la sua stessa stanza gli sembra inquietante, forse gli manca anche un po’ l’aria perché gli sembra che ogni respiro che fa gli depositi un masso di qualche libbra sullo stomaco. Prende il telefono, esce di lì, ritorna in cucina ed esce dalla porta posteriore. Fuori l’aria è tranquilla e distesa, c’è una leggera brezza ma non gli dà fastidio, non passano macchine e così riesce anche a sentire le onde rifrangersi sul bagnasciuga poco più in là. È in momenti come questo che ringrazia di aver deciso di vivere in California, perché è Aprile e non fa freddo, e può tranquillamente uscire nel cuore della notte con indosso solo una t-shirt e star bene. A New York cose come questa te le sogni.
    Si siede al bordo di un lettino vicino alla piscina, fissa per qualche secondo il sempre muto e vuoto display del cellulare, non succede niente come al solito, sospira e si sdraia. Alza gli occhi verso il cielo, è terso, c’è la luna a metà spicchio circondata dalle stelle. Non c’è inquinamento luminoso da queste parti, non ancora almeno, perciò tutto il firmamento luccica chiaramente, risplende, illumina il mondo sotto di sé quasi a giorno, ma in un modo più tenue, più delicato. Ritorna a guardare il telefono, compone lentamente un numero che ormai sa a memoria (strano, quelli che è riuscito ad imparare da quando ne ha uno si contano sulle dita di una mano), preme il verde e subito dopo il rosso. Non posso, cazzo. Devo resistere ancora. Finché non passa. Devo farlo per mio figlio. Devo guardare oltre, a quello che ho. Devo dimenticare, anche se ora mi sembra impossibile. Sono ormai due mesi e mezzo che mi faccio forza, non posso mollare proprio adesso! Ma il punto è esattamente questo, le prime settimane sono passate come niente, non se n’è accorto neanche, pensava alla sua vita, alla sua famiglia, a tutte le cose fantastiche che gli stavano capitando e che solo dieci anni prima sarebbe sembrato fantasticare ad occhi aperti, o parlare di qualcun altro, e che invece erano diventate realtà, erano diventate le sue. Pensava a tutto questo, si sentiva meglio, credeva di starci riuscendo alla grande, di aver chiuso definitivamente una parentesi, bella quanto si vuole, certo, ma solo una parentesi. Si sbagliava, ovviamente, e se n’è accorto quando ormai era troppo tardi per farci davvero qualcosa, o almeno tentare.
    È capitato così, all’improvviso, da un giorno all’altro, qualche settimana fa. Era a casa, suonava il piano, si sentiva felice, a posto con il mondo. Sua moglie era fuori una settimana su a New York per questioni di lavoro, così aveva badato lui alla casa, aveva cucinato un po’ di schifezze varie per sé e per suo figlio, uno strappo alla regola ora che non c’era nessuno a controllarli. Era stata una grande cena, si erano divertiti un sacco a fare le imitazioni, avevano sparecchiato insieme ed ora lui era seduto lì al piano e suo figlio guardava la tv. A lui non piaceva, l’accendeva assai di rado per conto suo, giusto per il Super Bowl o magari gli Oscar quando non andava alla cerimonia. Per il resto niente, solo dvd e blu-ray. La voce alla tv arrivava distintamente anche a lui, il volume era alzato più del necessario perché l’ultima volta che la stavano guardando c’era il giardiniere a tagliare l’erba del prato fuori e non riusciva a sentire nulla, così l’aveva aumentato troppo e quando aveva spento si era dimenticato di riportarlo a livelli normali. Comunque era un po’ sovrappensiero, stava suonando piano delle vecchie ballads country che aveva da poco riascoltato in radio, ma lo stava facendo quasi senza rendersene conto, sorridendo tra sé per la bella serata che aveva trascorso con suo figlio. Alla tv stava parlando una giovane intervistatrice (come nel 75% dei casi) in diretta da Londra, lì era già mattina e in più faceva freddo. Poche parole di benvenuto ai telespettatori e poi la prima domanda per l’ospite (il nome era già stato annunciato in precedenza), la classica sui progetti in cantiere a cui sta lavorando al momento. Una breve pausa (al solito, in cui si pensa a cosa si può rivelare e in quale misura), e poi parla l’intervistato. Bastano le prime tre parole (“Well, thank you...”) a farlo smettere di suonare, a richiamarlo di forza nel mondo reale, a fargli girare la testa in direzione della tv così in fretta che per un attimo teme di essersi appena procurato un torcicollo. Tre misere e banalissime parole udite per puro caso neanche lui sa come perché gli sembri di avere un dannato martello pneumatico in funzione nel petto; si alza, inciampa nello sgabello del piano, riesce a rimanere in piedi, in un attimo è dietro al divano sul quale è sdraiato suo figlio. Guarda quella faccia sullo schermo e deve trattenere con quanta più forza gli è possibile le lacrime dentro di sé.
    Si mordicchia il labbro inferiore, l’aver ricordato quel momento gli ha fatto provare ancor più un senso di abbandono misto a frustrazione, sentimenti che mai e poi mai dovrebbero appartenergli, non adesso che le cose stanno davvero girando nel verso giusto. Tira su col naso, torna a fissare il display per qualche secondo; poi è un attimo, un unico, breve, lucido attimo di follia, va al menù e dalle impostazioni rende il suo numero privato, compone quella maledetta sequenza di cifre e stavolta rimane in linea. Uno, due, tre, quattro squilli, non si è manco chiesto che ora possa essere dall’altra parte del mondo, o se possa star disturbando qualcuno o qualcosa. Rimane là, in attesa, non si rende nemmeno bene conto di quel che sta facendo. La mano destra regge il telefono all’orecchio, ma è come paralizzata, fredda, morta, mentre tutto il resto del suo corpo sembra in preda a frenetiche convulsioni, e non è la temperatura a causarle, sa di non avere freddo. Un brivido gli attraversa tutto il petto, guarda fisso davanti a sé, gli sembra che gli tremino perfino i denti in bocca. Non sa quanto tempo se ne rimane così, probabilmente la prima chiamata finisce nel nulla e ci pensa il cellulare, in automatico, a ricomporre il numero al suo posto. Ormai non sente nemmeno più gli squilli, è completamente in trance.
    “Hi, who is this?” domanda all’improvviso una voce all’altro capo del telefono, prima di essere coperta dal suono di un clacson. Un’ondata di calore si diffonde subito in lui, lo fa sentire vivo come non gli capitava da mesi ormai, lo fa sentire a suo agio. Abbandona la testa all’indietro sullo schienale del lettino, si porta il telefono al petto e respira profondamente. Un sorriso si fa lentamente largo sul suo viso.
    “Hello?” grida di nuovo la voce per sovrastare il mondo che deve avere intorno, così forte che la riesce a sentire anche se ha l’apparecchio distante dall’orecchio, premuto con ancora più forza contro di sé. Passa qualche secondo di attesa, poi subentra il bip-bip della caduta di linea. Alza il telefono davanti ai suoi occhi, si stupisce di avere la vista sfuocata, tanto da non riuscire a distinguere le cifre sullo schermo, ma non importa, gli basta spingere il verde per richiamare l’ultimo numero selezionato. Questa volta non c’è attesa, il tempo di appoggiare il cellulare all’orecchio che la stessa voce di prima prende a parlare, con un tono più autoritario (o presunto tale) e decisamente meno accondiscendente.
    “Look, I don’t know who you are...” dice, e a sentire quelle parole gli viene spontanea la replica, immediata anche se la sua voce trema.
    “You know who I am...” gli risponde flebile, tanto che l’altro inizialmente non lo ascolta nemmeno e continua a parlare come se non fosse mai stato interrotto.
    “... or why you’re... calling...” rallenta però, realizzando d’un colpo d’aver in effetti udito una voce all’altro capo della comunicazione.
    Silenzio. Lui sospira, sospira a fondo, ogni sospiro gli fa un male cane ma non c’è molto altro da fare se non starsene lì in silenzio, in attesa delle prossime parole magiche. Anche se totalmente sconvolto per quello che gli si sta muovendo dentro, riesce a cogliere nella pausa dell’altro il momento di incertezza, sta cercando di stabilire se quel che ha appena udito sia vero o solo frutto della propria fantasia.
    “Rob?” domanda alla fine, con un’emozione trattenuta quanto più possibile per evitare una delusione, ma che a lui non può in alcun modo sfuggire.
    Bingo!, ha appena pronunciato il suo nome, l’unica cosa capace di dargli di nuovo il coraggio di rispondere.
    “Jude...” gli fa di rimando in un soffio, prima di lasciare andare un gemito a metà tra il disperato e il liberatorio, che gli sblocca il groppo in gola e permette finalmente alle lacrime di rigargli il volto, silenziose e piene di dolore, tutto quel dolore anche fisico che aveva invano cercato di reprimere nelle ultime dieci settimane, da quando si erano visti l’ultima volta. Non ce la fa proprio a continuare, abbassa il telefono, se lo lascia scivolare in grembo, rannicchia le gambe al petto e comincia a singhiozzare, cerca di trattenersi, si morde perfino sul polso pur di riuscirci ma niente, si vergogna immensamente di sé stesso ma non ce la fa proprio a smettere. Va avanti per cinque minuti, la comunicazione sempre aperta anche se lui non se ne ricorda quasi, è talmente perso dentro di sé da dubitare di aver sentito la sua voce, si chiede se non se la sia completamente inventata giusto per far contento il proprio subconscio. Ne è così convinto che quando la risente si spaventa e per poco non caccia via un urlo.
    “Rob? Rob, come on, stop crying please. I-I don’t know what to do, you’re the one who always cheers me up! Please, just talk to me, say something for chrissake!”
    Sta cercando, sta cercando pian piano di calmarsi, di ritrovare sé stesso. Perché è vero, io non sono così, non sono il tipo che piange, cazzo! Gli torna in mente lo yoga, prende tre, quattro respiri profondi, rilassa il diaframma, mette i piedi per terra, riprende il controllo di sé stesso. Recupera il cellulare, se lo porta all’orecchio, è pronto per portare avanti una conversazione (almeno lo spera), è calmo adesso. Parla.
    “Matter of fact, you’re right, you know. Usually, you cry and I make you smile, that’s what we do. Sorry for the role-change, it’s not gonna happen again. I just… I just didn’t believe I’d hear your voice again.”
    “I was thinking almost the same thing about you…”
    Quelle parole gli fanno male, sa che sono vere. Ogni sera aveva pensato che chiamarlo, ogni dannata sera da quando avevano rilasciato quella cavolo di intervista a Gennaio, poco dopo che aveva vinto il Golden Globe. Ogni sera di quei maledetti due mesi e mezzo era stato tentato di farlo, anche dopo giornate in cui non gli era tornato in mente nemmeno una volta, e più volte aveva considerato l’idea di prendere il primo aereo disponibile per Londra. Ma alla fine non aveva mai avuto il coraggio di portare a termine questi suoi progetti, perché credeva, era convinto di riuscire a dimenticarlo, anche se dentro di sé sapeva fin troppo bene che si stava pigliando per il culo da solo, era impossibile crederci per davvero. Certo, aveva una famiglia bellissima, stravedeva per suo figlio, ma la verità è che lui gli mancava ogni singolo girono. Gli mancava avere il suo profumo sui vestiti, le sue mani tra i capelli, la sua testa sulla spalla. Gli mancava non poter cingere la sua schiena con il braccio, poggiargli la testa sul petto e sentirlo respirare. Ma soprattutto gli mancava da impazzire il ritrovare il suo sguardo tra tanti, quando era in mezzo ad una folla di sconosciuti o tra amici, gli mancavano quei suoi occhi da piccolo lord che lo facevano sempre sorridere.
    “Well, I’ve made it now!” gli risponde, cercando la battuta facile, come ha imparato a fare da Tony Stark.
    Silenzio all’altro capo del telefono. Tocca sempre a lui giocare, perché è lui che ha iniziato. Lui che ha ceduto.
    “Listen, I don’t really know how to put this out…”
    “Just use one verb between the words ‘I’ and ‘you’, it’s gonna work out fine. Oh, I’ll help you even more, it’s four letters, three of them consonants. Make your choice now.”
    Sente la voce distesa ora, sollevata. L’ha fatto sorridere, anche se ce l’aveva – e a ragione – con lui. Prende un altro respiro profondo, l’ennesimo della serata ma il primo felice, e si apre anche lui in un sorriso.
    “Alright, I guess I know the right answer. It’s…”
    “Remember: three words, not more.”
    “I miss you.” gli risponde, quasi coprendo le sue ultime parole. Ora che finalmente l’ha ammesso il corpo smette del tutto di tremargli, il cuore riprende a correre più veloce e il sorriso gli si distende da un orecchio all’altro.
    “Say it again” gli sussurra il suo interlocutore, e lui sa che ha gli occhi che gli brillano.
    “I miss you, I miss you, I fucking miss you… I couldn’t stand one more day not hearing your goddamn voice speaking with that fucking accent. I have a desperately need to see you… I fucking miss you, Judsie.”
    Parla proprio così come le parole gli vengon fuori, senza più remore, non ha più paura di niente. Dopo aver sopportato quei mesi in silenzio, di nascosto, per timore che chi gli stava attorno potesse capire tutto, ora si sente invincibile, intoccabile. Sta parlando con lui, ed è solo questo quel che gli importa adesso.
    “I miss you, too. I just… I didn’t ever call because I was afraid…”
    “That it was all over…”
    “Yes. I’ve been such an idiot, I know, but… you… you’re married, got a kid and I, I was afraid that you’d…”
    “Come here, Judsie. Please, come here.”
    “What!?”
    “Just come here. For Easter.”
    “Easter is tomorrow here, Rob!”
    “Oh, please. You’re an actor, a famous actor! It wouldn’t be such a problem getting a flight to L.A.”
    “You don’t understand, I’ve a life here! How I’m supposed to tell my girlfriend I have to come there on Easter? She’s gonna get mad!”
    “You’re not supposed to. You’ll take her with you, it’s easy.”
    “A-Are you drunk or something? What for?”
    “I’m serious. She’s gonna get along well with Susan, they’re gonna go on the beach or out for shopping together and they will totally forget about the two of us. You’re taking her to California, for goddsake, not in Russia!”
    Silenzio dall’altro capo del telefono.
    “Any other dumb objection?”
    “Yes.”
    “What?”
    “Are you gonna pick us up at the airport?”
    “I would, but I’m afraid your girlfriend wouldn’t like my way to say ‘hello’ to you after ten fucking weeks I’ve been not seeing you.”


    Dorme qualche ora, alle otto meno un quarto si sveglia, scende in cucina, prepara la colazione per tutti. Suo figlio è il primo a raggiungerlo, poggia lo zaino per terra, comincia a mangiare; poco dopo si siede anche sua moglie, e chiede al ragazzo se ha preso tutto, se s’è ricordato di portare il caricabatterie per il cellulare. Un po’ seccato gli risponde di sì, che non è più un bambino e che deve solo andare da un amico a meno di 20 miglia da lì. Lui gli sorride, non dice niente, gli fa solo l’occhiolino, vuol dire di portare pazienza. Gli risponde “Okay”, finisce la colazione, bacia entrambi i suoi genitori sulla guancia, prende lo zaino, si infila il casco e se ne va. Lui si fa coraggio, ora che sono soli può parlare, deve farlo, deve raccontagli la novità e lo deve fare come gli riesce meglio, e in modo che sembri inaspettato perfino per sé stesso.
    “Had a phone call earlier, you wouldn’t believe who it was!”
    “Jon, I guess. Didn’t he finish the movie two days ago?”
    “In fact it was not Jon. It was Jude!”
    “Oh, what a surprise! Is he fine?”
    “Yeah, he’s great, but he didn’t call just to talk. He wanted to let me know he’s coming to L.A. for Easter, with his girlfriend! Isn’t that wonderful?”
    “Sure it is! We didn’t see him in a while, it’s gonna be great spending some time together off set, don’t you think?”
    “Yeah, even though she will want to go shopping I guess…”
    “Well, I could take her around if it doesn’t bother Jude, couldn’t I?”
    “Oh, that would be perfect! He was so scary at the idea of spending the whole day coming in and out of shops…”
    “I figured out that. When is their plane landing?”
    “Gotta check it back on the phone, I don’t remember.”
    Si alza, va nello studio, recupera il telefono. Non è che non se lo ricorda, ovviamente, è che proprio non lo sa. C’è un messaggio, lo apre e legge: “Ora che so che è così facile, non mi farò più tanti problemi. Atterriamo alle cinque al LAX. Non riesco a credere che sta succedendo.” Rilegge l’ultima frase una, due, cinque volte, fin quando non sente entrare sua moglie, andargli vicino, abbracciarlo da dietro. Spinge il tasto rosso, abbandona il cellulare sulla scrivania e si gira per guardarla negli occhi.
    “They’re arriving at five.”
    “Are you gonna pick ‘em up?”
    “I-I don’t think it would be such a good idea. You know, those annoying photographers would get crazy seeing me and him together without a movie-reason…”
    “Seriously?”
    “Listen. I don’t know, but I don’t wanna find it out either. They’re gonna catch a cab and come here, that’s all.”
    “Here? Why here? They don’t have a room in a hotel?”
    “Err… Yes, of course they have a room in a hotel! I was just saying. They’ll go to their hotel, and then Jude will call me, and we’ll see what to do. You don’t have plans, do you?”
    “Come on, Robert! Tomorrow it’s Easter, everybody’s on vacation!”
    “Alright, I’ll tell you what. I’m going out for jogging now, will you be there in an hour or so?”
    “No, I’m going downtown with Ellie for lunch, you know, it’s the ‘woman-Saturday’ of the month. I’ll see you by 3 I guess.”
    “Leave me alone all this time? I’m gonna having a real hard morning then!”
    Le dà un bacio sulla guancia, poi sparisce di sopra. Missione compiuta.


    Alle quattro scende in salotto, si siede al piano e comincia a suonare qualche sua canzone, ma ben presto si ritrova ad improvvisare melodie che difficilmente ricorderà. Sua moglie è rientrata da poco, gli ha detto che vuole riposare una mezz’ora, farsi una doccia prima che arrivino i loro ospiti. L’ha rassicurata, le ha risposto che ha tutto il tempo che vuole, il che purtroppo è vero. Guarda l’orologio, dalle due ogni cinque minuti, gli sembra ogni volta che ogni due secondi ne stia uno fermo. Ha provato con lo yoga, niente; a guardare un film, niente; a leggere un libro di Doyle (di Doyle!), niente. Ha provato anche a tirare qualche pugno al sacco, ma era così sovrappensiero che al terzo colpo non l’ha visto tornare indietro per tempo ed è finito steso per terra. Ha acceso la tv (la tv!), ha resistito cinque minuti cinque e poi l’ha spenta. S’è buttato sul divano in salotto e ha cominciato a fissare il soffitto, è riuscito a tenere la mente sgombra solo per poco, poi i soliti pensieri sono tornati all’arrembaggio. A quel punto s’è alzato e s’è seduto al piano, dov’è ora. Guarda l’orologio: le cinque meno un quarto. Va in cucina, apre una bottiglia d’acqua, comincia a bere, a bere, a bere, senza fermarsi, in dieci minuti finisce due litri; va in bagno, si rinfresca anche un po’, si asciuga e torna di là. Non porta mai il cellulare con sé, oggi ce l’ha sempre in mano, più spesso ancora dell’orologio controlla il display. Ritorna al piano, suona solo con la destra, la sinistra regge il telefono. Alle cinque e un quarto gli arriva un messaggio, è di Jon e neanche finisce di leggerlo, per poco non lo cancella direttamente; passano altri cinque minuti, di nuovo sente la vibrazione nella sua mano, apre l’sms, dice: “Appena recuperati i bagagli, quanto ci si mette dal LAX a casa tua?”; gli risponde più veloce che può: “No, non puoi venire subito qui, passa prima dall’hotel!”; dopo due minuti ne arriva un altro: “Hotel!? Cazzo, non ho pensato all’hotel!”; alza gli occhi al cielo, gli scrive: “Prendi tempo, faccio una telefonata e ti dico io dove andare”. Va nel suo studio, recupera l’agenda in cui tiene tutti i numeri possibili e immaginabili, trova quello che vuole e compone il numero. Si identifica come il suo manager (ormai l’accento inglese gli viene fuori a comando), chiede una matrimoniale, gli viene risposto “Certamente, per quante notti?”, lui ci pensa su e dice “Sa come sono questi attori...”, il receptionist se la ride e ribatte che non è un problema. Ringrazia e mette giù. Gli scrive un messaggio con l’indirizzo dell’hotel, si raccomanda di non rimanere sorpreso di niente, aggiunge “Sbrigati” alla fine. Conta sette minuti, gli arriva la risposta: “Grazie. Contaci”. Si lascia andare sulla poltrona girevole, rimette l’agendina al suo posto nel cassetto della scrivania. Fissa i poster dei film che ha fatto appesi alle pareti del suo studio (sa che è assai poco professionale ma non gliene può fregare di meno), ovviamente dopo pochi secondi lo sguardo gli cade senza nemmeno che lo faccia apposta su quello di Sherlock Holmes, in cui ha un braccio (un gomito, per essere esatti) poggiato sulla spalla di Watson. Non può fare a meno di sorridere. In quel momento entra sua moglie, è pronta per ricevere gli ospiti, per l’ennesima volta si accorge di quanto sia bellissima e le fa i complimenti; lei gli sorride a sua volta, nota quale poster sta fissando e gli parla.
    “Happy?”
    “Yes. Holmes is glad to see his Watson again.” Accento inglese pronto all’uso.
    “Would you ever cut this off? He’s your friend in real life too, not just on a screen!”
    “Know what? You’re absolutely right, I’m gonna stop calling him Watson.”
    “Good boy. Are they landing yet?”
    “Yep. They’re on their way to the hotel by now, I suppose.”
    “I heard you playing the piano… Would you sing to me?”
    “Let’s go”
    La prende per mano, vanno dentro e suona, anche se non ne ha molta voglia. Ma il tempo deve lo stesso passare, e interpretare un pianista di pianobar gli sembra un modo piuttosto indolore.


    Il cellulare gli vibra tre quarti d’ora dopo, interrompendolo mentre canta Uptown Girl di Billy Joel; il messaggio dice solo: “Dieci minuti. Spero che il cancello sia in vista, non voglio scavalcare”. Gli risponde: “Tranquillo, non mi nascondo mai”.
    “They’re coming, in ten minutes” fa sapere a sua moglie, che immediatamente si alza dal divano e lo sistema, lo fa alzare dallo sgabello e lo allinea ai tasti, lo guarda e gli chiede perché non si sia cambiato, le risponde che l’ha fatto, solo che non se n’è accorta. Lei scoppia a ridere, gli dice che ci tiene a fare buona impressione; lui l’abbraccia, le dà un bacio e le assicura che è tutto in ordine, tutto perfetto, non deve davvero preoccuparsi di nulla. Rimangono in silenzio, ha il cuore che gli galoppa al triplo della velocità normale, si accorge di star di nuovo facendo fatica a respirare. Dopo qualche minuto si sente il gracchiare del citofono, sua moglie va a rispondere, è il guardiano che chiede l’autorizzazione a far passare un taxi. Passano pochi secondi e suonano alla porta. Lui rimane indietro, sente che non ce la può fare a rimanere calmo, crede che il sangue gli stia scorrendo al contrario, sente un peso enorme posato sulla sua testa. Si affonda le mani nelle tasche dei jeans, le stringe a pugno fino a farsi male. Sua moglie poggia la mano sulla maniglia della porta d’ingresso, l’abbassa, apre. Dalla sua posizione non può vedere chi è in veranda. La sente esclamare: “Jude!” e vorrebbe darsela a gambe, scappare al piano di sopra, nascondersi sotto il letto di suo figlio e rimanere lì finché non è sicuro che non ci sia più nessuno. La vede chinarsi in avanti, sparisce a metà, lo sta abbracciando. Abbracciando. E poi lui parla, fa le presentazioni: “Susan, this is Sienna, my girlfriend. Sienna, this is Susan, Robert’s wife and one of Holmes’ producers”. Le due donne si salutano, si abbracciano, poi sua moglie fa un passo indietro per lasciarli entrare. Cazzo, sto male, sto male, tra poco vomito tutto quel che ho mangiato, anzi, vomito acqua perché non ho mangiato un cavolo di niente a pranzo! È lì impietrito, appoggiato al corrimano delle scale, gli sembra di star tremando da capo a piedi, sente i denti battere uno contro l’altro. Entra per prima la sua ragazza, si guarda attorno, comincia a fare i complimenti; cerca di calmarsi, respira, respira a fondo, è praticamente incapace di mantenere lo sguardo fisso da una parte. Agli occhi degli altri sembra solo sovrappensiero, sua moglie lo sa bene e per questo lo chiama e lo riporta alla realtà.
    “Robert, our guests are here, would you mind to come and say ‘Hello’ to them, please?”
    Si stacca dal corrimano, alza lo sguardo, incrocia quello dell’altro, si avvicina e mentre lo fa cerca di dirgli qualcosa, con gli occhi almeno, perché sa che lo capirà. Stringe prima la mano della ragazza, si china per baciarla; fa un passo verso destra, verso di lui, stende il braccio e gli fa: “It’s always nice to see you, Watson”, l’unica frase di senso compiuto che sia in grado di formulare in questo momento. Sua moglie gli lancia un’occhiata esasperata, poi si rivolge agli ospiti e li invita a vedere la casa, loro accettano anche se a lui non gliene importa nulla. Le due donne vanno avanti, salgono le scale, parlano tra loro, con sollievo nota che sembrano già andare d’accordo; quando si fermano per aspettare loro due, alza lo sguardo e le dice: “I guess Jude doesn’t really care about our bedroom, Susan. We’ll wait for you right here”. Lei guarda Jude, che replica con un “It’s true” complice e divertito, e le due donne proseguono con la visita, scomparendo nella zona notte. Lui ha ancora lo stomaco sottosopra, si sente sempre sul punto di vomitare, così è l’altro che parla per primo.
    “A handshake?” gli chiede divertito.
    “Fuck you” gli risponde lui. È come paralizzato, non riesce a fare niente, non riesce a dire niente quando di solito non sta zitto un secondo. Se ne stanno lì impalati, uno di fianco all’altro, senza parlare per un po’. Poi è di nuovo Jude che ricomincia.
    “You really missed me, don’t you? Look at you, can’t even say a single word to me!”
    “We don’t have exactly a castle up there, you know, they’ll be back in a few moments, and I’m afraid if I started kiss you I wouldn’t be able to stop myself in time.”
    Ha appena finito di dire queste parole che le due donne riappaiono, scendono le scale, proseguono il loro giro; Susan gli parla.
    “Can I show them your room, honey?”
    “Of course you can! Come on, this way” replica, e fa strada nel corridoio a destra.
    Passano il bagno, che viene anch’esso mostrato, e poi sono nel suo studio. Apre la porta, accende la luce, entra per primo e si fa da parte per lasciarli passare. La ragazza di Jude esclama “Wow!” ed è sincera, lo nota e non può fare a meno di sorridere.
    “Oh, Jude, look! You are here, too! Isn’t wonderful?” esclama Sienna ad un certo punto (ecco come si chiama!); l’amico lo cerca con lo sguardo divertito (idiota, me ne accorgo anche se non ti sto guardando!), ma lui guarda fisso verso l’angolo più remoto della stanza, è la sua unica possibilità di sopravvivere a questo pericoloso momento. L’attimo dopo Susan li invita ad andare oltre, escono dalla stanza; Jude si attarda, lui si stacca dal bordo della scrivania dove si era andato ad appoggiare per combattere il senso di vertigine, lo afferra per una manica, fa sì che si giri verso di sé e gli sussurra piano: “That’s my favorite one”, l’altro replica: “I know”. Si guardano per qualche attimo negli occhi, fa per avvicinarglisi ancora di più ma sua moglie lo chiama da dentro. Fa un sospiro, gli poggia un pugno sul petto, si volta verso la porta e grida: “Coming!” di rimando.
    Raggiungono le loro compagne in salotto, sono sedute sul divano; Sienna si alza, dice che vorrebbe tanto andare a fare un po’ di shopping a Beverly Hills e che Susan, gentile, s’è offerta di farle da guida, se non gli dispiace andrebbero da sole. Jude le risponde che sì, un po’ gli dispiace, avrebbe voluto comprare qualcosa anche per sé (che cazzo di attore sei, Judsie!), ma dài, se vogliono andare da sole non sarà certo lui a fermarle. Lei gli si avvicina, lo bacia, gli dice che è un tesoro e che non ci metteranno molto; anche Susan si alza, li raggiunge, dice loro a bassa voce che prima di vedere Beverly Hills per la prima volta dicono tutte così, gli dà un bacio e gli dice che probabilmente torneranno a casa sul tardi, tra una cosa e l’altra. Ribatte che forse si potrebbero vedere da qualche parte a downtown per mangiare qualcosa, magari verso le dieci, se per lor signore non è di troppo disturbo (sì, in effetti anche io non sono malaccio, come attore). Lei gli risponde che sarebbe un’ottima idea, dopo lo chiama così si accordano sul dove vedersi; poi si volta, prende le chiavi della sua auto dal mobiletto all’ingresso, in infila una giacca, apre la porta a Sienna che la precede fuori e se la richiude alle spalle. Passa qualche secondo, poi Jude parla, la voce meravigliata ed entusiasta.
    “Can’t believe this, it’s actually worked out!”
    “I’m always telling you, Jude, you need to trust me more! I know pretty well how things usually go… Want something to drink?”
    “Right, you know what.”
    “Sure I do. Don’t run away, I’ll be right back.”
    Va nel suo studio, prende le due bottiglie, torna in salotto; lo trova che accarezza il piano, lo sguardo un po’ triste perso nella superficie splendente che gli riflette il viso. Versa da bere ad entrambi, gli si avvicina, gli porge il bicchiere e si mette nella posizione opposta alla sua, con la schiena e i gomiti poggiati al piano. Lo guarda, parla.
    “You’re being possessive now, Jude… You’re in love with my piano, I’m jealous…”
    Lui volge lo sguardo nella sua direzione e gli sorride. Così mi uccidi.
    “Indeed I am… I… I was just thinking… Do you remember the last night of shooting, when Guy rented that pub, and…”
    “And I eventually ended up singing to you in front of all the crew and my wife, trying telling you with a song that everything was gonna be alright, in a so perfect American way, except of course we were in London and I clearly knew it ever wouldn’t? Yes, I remember that night.”
    Rimangono in silenzio, per tutto il tempo si guardano negli occhi. Poi è Jude che parla.
    “Want to sing to me anything now?”
    “Would be my pleasure.”
    Poggia il bicchiere sul tavolinetto vicino al divano, si avvicina lo sgabello al piano, ci si siede e incrocia di nuovo il suo sguardo.
    “This one, ladies and gentlemen, is for my beloved friend, Mr. Jude Law, who’s in the crowd tonight. Please, be quiet as I’m singing, because I don’t want him to miss any word.”
    Abbassa gli occhi, poggia le mani sui tasti, cerca la posizione giusta, l’accordo iniziale, e quando lo trova rialza la testa e comincia a cantare.
    “Oh, why you look so sad? Tears are in your eyes, c’mon and come to me now… Don’t be ashamed to cry, let me see you through, ‘cause I’ve seen the dark side too… When the night falls on you, you don’t know what to do… Nothing you confess could make me love you less… I’ll stand by you…”
    La canta tutta, non gli stacca quasi mai gli occhi di dosso, solo ogni tanto per controllare qualche nota qua e là. Arriva all’ultimo ritornello, canta con ancora più intensità: “I’ll stand by you, I’ll stand by you, won’t let nobody hurt you, I’ll stand by you… Take me into your darkest hours, and I’ll never desert you, I’ll stand by you…”
    Toglie le mani dal piano, le lascia ricadere sulle ginocchia, alza la testa, parla.
    “Liked it?”
    Lo guarda, ha la faccia bagnata dalle lacrime, ma riesce comunque a dire, a bassa voce: “I guess so”; si alza, in un attimo gli è vicino, i suoi occhi cercano quelli dell’altro, e quando li trovano lo chiama: “Jude?”
    “What?”
    “I love you” gli sussurra, avvicina le labbra alle sue e lo bacia, così a lungo e così intensamente per fargli capire quanto dannatamente vero sia, per fargli capire tutto quello che probabilmente non sarebbe mai in grado di dirgli a parole, che senza di lui la vita gli sembra così vuota, così privata di qualcosa. Sente le sue mani accarezzargli dolcemente i capelli, quanto cavolo gli mancava questa cosa... Poi passa ad accarezzarlo sul collo e lui sorride, si perde nei suoi occhi. Si stacca un attimo da lui, gli chiede: “Want to see my bedroom, now?”, gli risponde: “You bet it.” Salgono le scale, lo guida, apre la porta della camera da letto, lo fa entrare per primo e nel frattempo si toglie la t-shirt. Chiude la porta dietro di sé e il mondo scompare definitivamente dai suoi pensieri.


    Il telefono prende a squillare, squilla, squilla, squilla; lo comincia a sentire dopo non sa quanto tempo. Ignoralo, ignoralo, ignoralo, non aprire gli occhi, tienili chiusi, non lasciare che la vita riprenda il suo corso. Squilla, squilla, squilla, non ce la fa più a resistere, gli martella nella testa, lo costringe a riprendere possesso del proprio corpo, e con esso della realtà. Apre appena appena gli occhi, intravede la sua testa poggiata sul proprio petto; gli dà un bacio, tira a sé l’altro cuscino che sta per cadere dal letto e gliela sposta delicatamente lì sopra, poi scivola via in silenzio assoluto. Scende al piano inferiore, va in cucina, recupera il telefono che ovviamente nel frattempo ha smesso di suonare. Si stropiccia gli occhi perché non riesce a leggere il numero sul display, fuori s’è fatto buio e nella testa gli sembra di avere la nebbia. Poco alla volta distingue le cifre, riconosce il numero, è quello di Susan, non sa che fare. Ci sono dieci chiamate perse, le prime è delle dieci e zero due, ora sono le dieci e trentacinque. Si convince che è meglio chiamarla, se piombasse lì da un momento all’altro sarebbe un casino e in questo momento non è assolutamente in grado di sopportarlo. Fa il numero, lei risponde al secondo squillo. Dire che è incazzata è poco.
    “Robert! Where the hell were you two? We were worrying!”
    “I-I’m so sorry, we went out for a ride and I totally forgot to bring along my phone…”
    “You’re unbelievable! What are we supposed to do now? Have a dinner or what?”
    Cazzo, non ne ho voglia, non ne ho voglia, non ne ho assolutamente voglia. Voglio solo tornare di sopra e riaddormentarmi abbracciato a lui, ecco di cosa...
    “Absolutely. Where are you, ladies?”
    “In the car right now, we were about to come back home looking for you two!”
    Visto?
    “I’ll tell you what. We’ll see you girls at Frank’s Place, in thirty minutes, time for a shower. Okay?”
    “It’ll be fine. See you later.”
    Mette giù il cordless, si passa una mano sulla faccia, respira a fondo; ancora intontito dal sonno rifà le scale appoggiandosi al corrimano, entra in camera da letto e vede che è lì ancora addormentato. Non vorrebbe svegliarlo, odia farlo, fosse per lui se ne starebbe lì per sempre a guardarlo dormire, a guardare la sua faccia d’angelo rilassata, a guardare il suo petto respirare tranquillo. Ma non può farlo, e si deve anche dare una mossa se non vuole che Susan si incazzi ancora di più di quanto non lo sia già; così si fa forza, si avvicina al letto, si siede vicino a lui e comincia a chiamarlo e a scuoterlo piano piano, proprio come se lo stesse cullando.
    “Judsie? Judsie? Judsie, get up, we’re late…”
    Lo fa senza troppa convinzione comunque, dopo un po’ senza accorgersene smette anche di parlare, si limita a smuoverlo leggermente; gli si stanno richiudendo gli occhi, ha ancora sonno, da quella sera in cui l’aveva rivisto in tv non era più riuscito a dormire più di qualche ora a notte, e ora che finalmente ce l’aveva fatta e si era addormentato così in pace con tutto il creato... un cazzo di stupido telefono mi ha fatto svegliare! La mano che aveva poggiato sulla sua pancia non lo scuote più, l’altra è impegnata a reggersi la testa. Riposo solo gli occhi, non mi riaddormento...
    “That’s not fair, you know… Wake me up and then you fall asleep…” sente la voce di Jude parlare.
    “I’m not sleeping…” replica, gli occhi ancora chiusi. La mano gli scivola sulla gamba, capisce che lui si sta tirando su, si mette seduto, gli si avvicina e lo abbraccia da dietro, poggiandogli la testa sulla spalla.
    “Exactly… What are we late for?” gli sussurra all’orecchio.
    “The dinner…”
    “The dinner? What dinner?”
    “How many dinners are you scheduled to attend during your visit in California, Mr. Law? The one with Susan and… Oh shit, the dinner!” urla all’improvviso, aprendo tutto ad un tratto gli occhi e scattando in piedi. Jude ovviamente gli scoppia a ridere in faccia.
    “Rob, are you okay?”
    “Yes… No, actually. Listen, we gotta be downtown at eleven, and we’re late yet, so get ready as fast as you can, ‘cause if you don’t we’re gonna end up in a big, big trouble here.”
    “Okay, fine…”
    “I’ll tell you everything as we’re in the car, I promise.”
    Jude è ancora lì seduto sul letto che lo guarda divertito, anche quando ha finito di parlare; non gli resiste più di qualche secondo, gli si avvicina, poggia i dorsi delle mani sul materasso, si china su di lui e lo bacia, è il suo modo di dirgli “grazie di esistere”. Quando allontana le labbra incrocia il suo sguardo, gli sorride e gli sussurra piano: “C’mon, Judsie, get off the bed, I’ve to make it.”


    Guida come un pazzo per tutta la strada verso il centro, ben oltre i limiti consentiti, brucia un paio di semafori e per poco non vengono fermati da una pattuglia mimetizzata; Jude è terrorizzato sul sedile, non sa se soffre di più a guardando o no la strada. Lui parla, gli riporta per filo e per segno la conversazione che ha avuto con Susan al telefono, gli dice che probabilmente hanno chiamato anche lui, così nel caso glielo dovessero chiedere aveva lasciato il giubbino in casa e il suo cellulare era rimasto nella tasca interna per tutto il tempo.
    “Do I ever tell you that I’d be lost without you?” gli fa appena lui ha finito di spiegargli tutto. Gli sorride di rimando.
    “Wait, you haven’t heard my idea for the after-dinner yet!”
    “After-dinner what? Listen, Rob, you know how much I’d like to…”
    “I’ve not said ‘for the night’, but ‘for the after-dinner’, you don’t pay me much attention, Judsie.”
    “I heard you, but I don’t think it’s different if you call it with a nicer or a cooler name.”
    “That’s not the point. I’d called it ‘after-dinner’ because, and I swear, I’m gonna get you back to the hotel within one a.m.”
    “Your word?”
    “Oh, c’mon, my word! Do you think I’m allowed to spend the whole night out just because you’re around?”
    “Okay then, let’s hear your plain!”
    “It’s really quite simple: get your girl drunk.”
    “WHAT!?”
    “She doesn’t drink so much, does she? We’ll take some wine, but I can’t refill her glass everytime it’ll be empty, that will be your work.”
    “You’re kidding me, right?”
    “No I’m not! Listen, you two have been through a twelve hours-flight, and then she went out for shopping – and believe me, that would make anybody tired, even if obsessed with clothes – and she didn’t even sleep like you did! Just a couple of shots, and she’s gonna want her bed as soon as she can. Susan is gonna invite you two at home, but she’ll say she’s so tired, no thanks, then she’ll look at you and say ‘Oh, Jude, but if you wanna go, you can!’, which you’ll replay ‘No, I wanna stay with you’ – if you want to, you can say this looking in my direction – and then I’ll offer myself to drive you two back at the hotel. Susan will go home with her own car, telling me not to get lost along the way; I’ll leave you on the front lawn, saying ‘G’night, see u tomorrow!’, then I’ll drive for some blocks and turn back to the hotel. Meanwhile you’ll take her to your room, snuggle her for a while, till she’ll say ‘No Jude, I’m so tired, I just wanna sleep’, you’ll replay ‘That’s alright, don’t worry about it, I love you’ – or something like that – then you’ll add ‘I’m going to get me a drink, do you want anything?’, just to be nice, you know, she won’t even listen to you anyway because she would have reached the bed and be falling asleep as soon as you are talking. Then you’ll get downstairs, come out and I’ll be right there waiting for you, so we can go. Is it all clear?”
    “You scare me , Rob. You do.”
    “Oh, c’mon, I’ve made all this up just for us, Judsie!”
    “I know, but it scares me anyway.”
    “I love you even more when you’re scared, you know.”


    “Are you sure you don’t wanna come?”
    “No, thanks Susan, I really need a bed, I’m so tired…”
    Sì, lo so, lo so, sono un genio. Era andato tutto come previsto, Jude gli aveva dato retta anche se spaventato, ed ora il gioco è quasi fatto. Quando erano arrivati, nonostante la folle corsa in macchina, con un quarto d’ora abbondante di ritardo, gli era bastato lanciare un’occhiata a Susan per capire che l’incazzatura non le era passata affatto, anzi, se possibile le era anche aumentata; ma poi un po’ il vino, un po’ le sue straordinarie doti di intrattenitore avevano fatto sì che tutti si divertissero e soprattutto che le due donne non chiedessero ulteriori spiegazioni su quale misteriosa fine avessero mai fatto lui e Jude nelle ore precedenti.
    “Don’t get lost on your way back home, honey!”
    “I’ll try! Don’t wait up for me anyway, you know I like to take a walk on the beach late at night…”
    Li porta all’hotel, durante il tragitto la ragazza di Jude quasi si addormenta sul sedile posteriore, non si regge in piedi, forse ha un po’ esagerato nel continuare a riempirle il bicchiere. Augura loro la buonanotte, se ne va dicendo di chiamarli l’indomani, mette la prima e parte; arriva sulla strada che costeggia il lungomare, la percorre tutta, torna all’angolo dell’hotel. Jude è già lì che lo aspetta, con la giacca solo appoggiata sulla spalla mantenuta con la mano; come lo vede attraversa la strada ed entra in macchina, gli dice che è stato più facile del previsto, che si risveglierà solo domani mattina. Gli sorride mentre rimette in marcia.
    “Trying to make me spending the whole night with you, now?”
    “It wouldn’t be bad…”
    “I know.”
    “So is it a yes?”
    “It’s a ‘I can’t’. You know I’d long for staying all night with you, but Susan wasn’t drunk, and if I won’t go home, she’s gonna…”
    “You told her not to wait up for you!”
    “What if she wakes up and doesn’t find me in the bed?”
    “You could tell her you were walking on the beach.”
    “At four a.m.?”
    “Right, forget about it.”
    Se ne rimangono in silenzio per un po’, continua a guidare, prima tra il traffico della città, poi sulla statale ancora un po’ intasata, infine su una strada in salita asfaltata per l’ultima volta ormai troppo tempo fa. Mentre stanno per arrivare a destinazione gli tira piano un pugno sulla spalla e parla.
    “C’mon, don’t be mad at me, please.”
    “I-I’m not mad at you, okay? I’m mad at this fucking situation.”
    “Then don’t be mad at all, it’s useless. Plus, we’re arrived.”
    “Where?”
    “Get your ass off the seat and take a look around yourself, you’ll see.”
    Scendono, chiudono le portiere, si ritrovano davanti all’auto.
    “Wait, I… I know this place…”
    “Sure you know. They film almost every romantic movie scene settled in L.A. here.”
    “Are you romantic?”
    “What do you think?”
    Si siede per terra con le ginocchia al petto, incrocia le braccia sopra le rotule, la spalla poggiata al cofano, lui lo imita subito dopo; guardano verso il basso e la città degli Angeli è sotto di loro, ancora più in là intravedono la massa oscura e imponente che è il Pacifico, e tutto, tutto sembra essere in un’altra dimensione, in un altro mondo e probabilmente lo è, perché ora, lì sopra, ci sono solo loro due e non si sente un rumore che sia uno, non si sente niente, tranne ogni tanto il verso di qualche civetta. Jude gli poggia la testa sulla spalla, lui si volta e gli dà un bacio sui capelli; lo adora quando lo fa.
    “I think you are very romantic, yes.”
    “Thought so.”
    “Rob?”
    “I’m here.”
    “How is it gonna be?
    “What?”
    “Live like this. Eight hours of time zone, a $800-flight each time, and each time a different fake reason for the trip. Calls late at night or early in the morning ‘cause you don’t remember there are eight more hours in London. And then spending three or four months always together on set, which is absolutely wonderful, but when it’d be over you will…”
    Non finisce la frase perché con un solo movimento del corpo si scosta da lui, inclina la testa e lo bacia; Jude ricambia e gli passa una mano tra i capelli, comincia a togliergli la giacca di pelle che ha indosso ma lui lo blocca, gli prende la mano e gli dice: “Come with me”. Lo conduce giù per un sentiero semi-nascosto dall’erba alta, camminano per cinque minuti, poi all’improvviso si blocca, gli fa cenno di sedersi, si spalla e respira a fondo.
    “Safer here?”
    “No, more romantic. You can smell the green of grass, see the stars above us, and…”
    “I don’t think I’m interested in that right now…”
    “You know what? Neither I…”
    Lo tira per il gomito, Jude si gira, lo guarda, poggia i gomiti per terra, gli sorride.
    “Are you gonna say anything else or can I talk?”
    “Just don’t start with that shit again. You’re an actor, have you seen Gone With The Wind or not?”
    “Five or six times I guess.”
    “Then you should know…”
    “What?”
    “’Home, I'll go home. And I'll think of some way to get him back. After all… tomorrow is another day.’ Did I quote her right?“
    “You’re talented, should give Hollywood a chance to make an actor out of you.”
    “Yeah, maybe a day or another, I’d like to be a superhero or something like that.”
    “I’m afraid to disappoint you, but they’re already doing these stuff, you’re late… The sequel of Iron Man is gonna hit the theatres in less than a month, so…”
    “Iron Man? It’s not fair, I wanted to play Tony Stark, I loved his character when I was a kid!”
    “I’m sorry, they already have their man for that role.”
    “Is he good?”
    “I don’t know, I didn’t see the first chapter…”
    “You liar…”
    “I didn’t know him two years ago.”
    “You know him now?”
    “No, but I saw him on the screen on Christmas Day.”
    “And?”
    “I like him more when he talks with an English accent.”
    “I thought you would say it.”
    “Well, I guess he could play any role they offer him.”
    “You mean it?”
    “I do. He’s a charismatic person, so many people love him”
    “And him?”
    “He cares about his fans.”
    Se ne rimangono per un po’ in silenzio, si sente così in pace con tutto l’universo che non ha voglia di far nient’altro che starsene lì con lui a guardare la città sotto di loro.
    “Jude?”
    “M-Mmh?”
    “That friend of yours called.”
    “Which friend?”
    “The one who plays Stark.”
    “What did he want?”
    “He left a message for you.”
    “What did he say?”
    “He just wanted to make sure you know he doesn’t really care about the other people.”
    “Anything else?”
    “Yes. If you come here I can tell you.”
    “What for?”
    “It’s a surprise.”
    “Okay then.”
    Si gira verso di lui, si mette a pancia in giù e copre strisciando a mo’ di soldato quei metri che li separano. Rimane in quella posizione a pochi centimetri dal suo viso, gli occhi fissi nei suoi.
    “Well, I’m right here now. Tell me what else he said.”
    “He said… He loves you more then he’ll ever be able to tell you, and he needs you to trust him on this point.”
    “You can tell him I’ll trust anything he will ever say, because I love him as well.”
    Poggia una mano sulla sua camicia, ha i primi due bottoni aperti, è Aprile, sono in California, ci sono 22 gradi; si avvicina ancora di più, l’altra mano è già tra i suoi capelli spettinati, che ora sono acconciati alla Tony Stark. Gli sorride per la millesima volta in meno di dodici ore, è più forte di lui, poi chiude gli occhi e lo bacia. L’altro non si lascia pregare e risponde, gli sbottona il resto della camicia, gli accarezza la nuca. Si sentono in cima al mondo e si dimenticano di tutto il resto.


    Si svegliano insieme alle prime luci dell’alba, Jude gli si è raggomitolato affianco durante la notte, lui ha un braccio intorno alle sue spalle, sono entrambi coperti dai loro due giubbini di pelle; quando apre gli occhi cerca il suo sguardo, e quando lo trova gli sorride assonnato, parla e nella sua voce gli pare di sentire qualcosa di sacro.
    “Ducky, it’s dawn… What have we done?”
    “Don’t steal my line, I don’t know what to say now.”
    “You’re in trouble?”
    “I guess so.”
    “Have a plain?”
    “Don’t know, I’m gonna pretend I really slept on the beach, or outside in the garden.”
    “In the same place where you were when you called me?”
    “What a difference a day makes…”
    “She’s gonna believe you?”
    “Frankly, my dear, I don’t give a damn.”
    “Mr. Gable, I’m afraid you have my own smell on you, not your garden one.”
    “That’s because I’m in love just with yours.”
    Silenzio. Sotto di loro la città si sta cominciando a svegliare, se mai è riuscita ad andare a dormire; in lontananza, sulla Pacific Coast Highway, si cominciano ad intravedere i primi movimenti, i primi di un’altra lunga, faticosa giornata. Il tempo è bello, è quasi sempre bello a Los Angeles. È Pasqua, andranno tutti in spiaggia oggi.
    “Rob?”
    “Yep?”
    “Happy birthday.”
    “You knew today was my birthday?”
    “Sure I did! You didn’t seriously think I was flying here just because of Easter, did you?
    “I don’t remember I told you about it.”
    “You didn’t, I’ve found out by myself.”
    “My Watson is learning from his Holmes…”
    “I’m gonna show you how much clever he can be… When are we gonna start shooting the sequel?”
    “You know what? I was just thinking about calling Guy later on this morning and ask it to him. But it’s my birthday, so maybe he’ll be the one who’ll make the call.”
    “You also read my mind now?”
    “Yes I do.”
    “So, what I am thinking about right now?”
    “That you’d never let me go…”
    “And what about you? What you’re thinking about?”
    “That you are the most beautiful birthday present I’ve ever had. I love you.”
     
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  2. »Aristocrat Helena©
     
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    *___________* è bellissima, seriamente!
    Per prima cosa hai uno stile abbastanza unico, almeno io non ho mai letto una fiction in italiano con i dialoghi in inglese, e devo dire che sei anche molto brava a scrivere in inglese, ci sono pochissimi errori, non ci si fa neanche troppo caso.
    La storia mi piace tantissimo, loro sono veramente trooooooppo dolci *-*
    mi è piaciuto molto anche il fatto che all'inizio non ti riferivi a Susan ed Indio con i loro nomi ma solo con "lei" e "lui".
    Nel complesso, seriously, belliffima *-* brava brava!
    scrivi altroooooooooooooooooooooo *-*
    (RDJude is much appreciated xD)



    Lo slash è il bene, sempre e comunque.


    X°D
     
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  3. kia.downey
     
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    wow! bellissima! ma quanto tempo c'hai messo per scriverla tutta??!!! complimenti davvero!!!
     
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    Awwwwwwwwwwwwwwwww hai fatto benissimo a pubblicarla *_*
    Ci ripensavo oggi, è scritta benissimo <3
     
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  5. mipple_
     
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    mamma mia, scrivi benissimo in inglese, come hai fatto? xD
    bellissima fic, mi piaceeeee <3
     
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  6. Queen Nunù
     
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    io sono ignorantotta in tema fanfiction, ma questa giuro mi ha preso troppo! l'ho letta tutta d'un fiato, è suuuper fantastica!

    mi raccomando, postane altre nel topic delle fanfictions, perchè il tuo modo di scrivere mi piace tantissimo!!!
     
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  7. Downeyjr93
     
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    dovresti scrivere un libro e pubblicarlo...complimenti davvero è molto bella e che storia!
     
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  8. Shadowolf19
     
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    Innanzitutto, grazie mille a tutte, sono contentissima che vi sia piaciuta! :D

    @»Aristocrat Helena©: waw, gli errori in inglese li ho notati anche io mentre la rileggevo dopo averla postata, ma era tardissimo e mi scocciavo a correggerli e ho lasciato stare xD Comunque la commistione italiano/inglese mi è venuta perchè sono un po' (okay, troppo) fissata con la voce delle persone, non ci posso fare niente, e scrivere i loro dialoghi in italiano mi sembrava una sorta di doppiaggio su carta, ed io aborro il doppiaggio. Poi mi piaceva il fatto che Jude è inglese e Rob americano, e durante le interviste è musica per le mie orecchie ascoltare la differenza tra uno e l'altro, quindi scrivendo in inglese potevo (anche se in minima minima parte) tentare di riprodurre questa cosa.Mi fa piacere che si sia notato il fatto dei nomi, fa parte di una precisa scelta stilistica, è come se all'inizio Rob tentasse, anche nella narrazione, di convincersi che stava bene, quando invece non era così.

    @kia.downey: non tanto, se non sbaglio ho cominciato mercoledì e finito domenica, scrivendo dalle 2 alle 5 di notte, poi ho dovuto riportare sul pc, e questo spiega il ritardo nel postare xD

    @mipple_: ho imparato l'inglese grazie ai film, quando li compro in DVD li guardo in originale con i sub inglese, e dato che ne vedo moltissimi in un paio di anni sono riuscita a capire come scrivere in slang americano, più che altro xD

    @Queen Nunù: okay, in questi giorni ne vorrei scrivere una sul primo meeting degli attori dei Vendicatori, l'idea l'ho sognata un paio di giorni fa xD

    @Downeyjr93: ci sto lavorando xD
     
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7 replies since 7/4/2010, 03:18   307 views
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